Menu di navigazione+

Ceramica neolitica…molto, molto neo-

Pubblicato il 9/Mag/2019 in Ceramica, Salento magico

La visita al Museo della Preistoria di Nardò è stata un’esperienza entusiasmante, stimolante ed anche divertente. L’aristocratica Nardò ha sempre avuto la capacità di incantarmi (la mia prima visita risale al 1976) e su qualunque epoca della sua storia mi sia soffermata ho trovato qualcosa da ammirare ed imparare.
Ora sono giunta al principio della storia, non solo di Nardò. Proprio qui, l’area del Parco Regionale di Porto Selvaggio ha ospitato per millenni l’Homo sapiens Neanderthaliensis e poi il sedicente Sapiens Sapiens.
Qui la specie Homo ha vissuto, abitato e lavorato nelle numerose grotte che oggi costeggiano il mare, in un paesaggio (con tenacia e sacrificio preservato) di una bellezza stupefacente.
Il museo, posto nel centro storico nei pressi dell’Osanna, ben organizzato e ben illustrato ai visitatori, conserva straordinarie tracce delle frequentazioni umane del territorio neretino dal Paleolitico fino all’età del Bronzo. Gli strumenti litici sono ordinati per epoca e tipologia, i pannelli rendono a colpo d’occhio l’evoluzione del territorio, l’evoluzione e la differenziazione della specie umana e delle altre presenti, ma l’unicità del Museo è data dalla presenza di tre denti decidui ritrovati nella grotta del Cavallo frequentata in periodi successivi dai Neanderthal e poi dai Sapiens (nonché dalle iene).
Quei denti da latte, scoperti nel 1964 e in un primo tempo attribuiti tutti a bimbi Neanderthal si sono invece rivelati uno perduto da un bimbo Neanderthal e due da bimbi Sapiens ( collocati in strati di scavo differenti). Quelli Sapiens, risalenti a circa 45mila anni fa , hanno permesso di anticipare così l’ingresso in Europa dell’uomo moderno di alcuni millenni.
Sono  esposti anche frammenti di ceramica dipinta al cui fascino non sono potuta sfuggire. Sono dipinti in ocra rossa, gialla e nero. Ho una mentalità primitiva: ricordo di aver letto da adolescente un saggio di Margaret Mead in cui alla spiegazione della antropologa che il vetro si ottiene da sabbia e fuoco, la risposta degli indigeni fu: allora facciamo un po’ di vetro! Il sapere è saper fare. E così ho provato.
Ho tirato a sfoglia l’argilla al giusto grado di malleabilità. Giunta, con una prima essiccazione alla durezza cuoio ho provato ad usare le modalità di lavorazione allora disponibili. Ho dipinto piccoli soli con ocra rossa, gialla e carbone. A completa essiccazione li ho cotti con modalità diverse: il primo a fuoco vivo nel camino già caldo, senza alcuna protezione: si è spaccato in numerosi frammenti ma l’ocra rossa è rimasta splendida.   Il secondo l’ho introdotto nel camino ancora spento, sormontato da uno spesso coccio di protezione: è rimasto intero ed i tre colori si sono mantenuti. La temperatura massima raggiunta dopo un’intera giornata di fuoco può essere stata al massimo di 600°.  Tutti gli altri pezzi preparati li ho cotti in forno per ceramica ad una temperatura di 920°. In questa cottura l’ocra rossa è rimasta inalterata, la gialla ha virato sull’arancione, il nero del carbone è svanito. Sui dischi ho lavorato a engobbio (copertura di barbottina (terra diluita in acqua ad una consistenza cremosa) di colore diverso dall’argilla di base), a graffito, a impressione di elementi naturali ed anche a terra levigata. La terra levigata è un tentativo di impermeabilizzare il prodotto chiudendo “i pori” dell’argilla  con uno strumento ( in questo caso una spatola di legno) che lisci , quasi a specchio, la superficie. Engobbiata e/o dipinta ne ho poi tentato di rendere la superficie appena lucente con una spruzzata di argilla peptizzata, un po’ di cenere  e un po’ di dorato liquido organico (forse sorprenderà qualcuno sapere che i ceramisti, nel corso dei secoli, lo hanno usato spesso nelle loro misture). I risultati non sono stati esaltanti ma nella giusta direzione
E’ un po’ come in cucina, quando la ricetta prevede “q.b.” e se non hai idea di  “quanto basta” le prove per arrivare al risultato prevedono un lungo percorso di avvicinamento. Ho provato allora con le patine allora disponibili: latte e cera. In entrambi i casi i colori sono divenuti più vivaci e forse è aumentata un po’ anche la impermeabilizzazione.
Il gioco di fare una ceramica… neolitica, molto molto neo- , è stato comunque divertente!