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Pasquetta : Calimera e la pietra forata

Pubblicato il 9/Apr/2015 in Miscellanea, Salento magico

evidenzaA Calimera vi è un luogo dove ancora vive una pietra. Testimone, ancora comprensibile, della nostra millenaria, caparbia volontà di capire. Capire noi stessi e capire il mondo. E’ un men-an-tol per dirla con linguaggio nordico e tecnico, la pietra te Santu Vitu, secondo la comune denominazione degli abitanti di Calimera e della Grecìa salentina.
Posta oggi tra un mare di ulivi che hanno sostituito il bosco originario appartiene a quella serie di monumenti preistorici e megalitici  che ancora punteggiano il Salento e che nel tardo Neolitico e nell’Età del bronzo dovevano essere frequentissimi visto  il gran numero di sopravvivenze.
( vedi , se vuoi,l’articolo : Dolmen e menhir? Pietrefitte sono.)
Una cappella di S. Vito gli fa quasi da cappello: posta sopra , la racchiude e tenta di adattarla agli ultimi due millenni. Occupa il centro della piccola chiesa, chiaramente costruitagli intorno e ne è il fulcro, come l’oggetto prezioso dentro la sua teca. 
Non è l’unico me-an-tol sopravvissuto nel Salento. A Parabita, nella località “Madonna te lu carottu” ( Madonna del buco) ve ne è un altro, di diversa struttura  ma espressione della stessa cultura. Ma di Parabita, luogo di straordinaria rilevanza preistorica ( qui furono trovate le cosiddette Veneri scolpite in osso levigato di cavallo) parleremo un’altra volta perché  “lu carottu” non sa più parlare, la pietra e gli uomini non si frequentano più.
A Calimera invece, diciamo così, il culto è ancora officiato. Nel giorno di Pasquetta, nei pressi dell’equinozio e nel primo plenilunio di primavera ( che determina la data della Pasqua cristiana), lietamente tante persone convergono verso la chiesetta per compiere il rito, prima di disperdersi negli uliveti circostanti a consumare il più classico dei picnic sull’erba di tutto l’anno.
IL rito consiste nell’attraversare la pietra introducendosi nel suo foro. Essa è larga circa un metro e il suo foro centrale è di 30 cm. ( non l’ho misurato  ma così è detto ovunque, anche se mi è sembrato un po’ più grande). L’apertura è irregolare e pretende, per potervi passare, una precisa torsione che liberi prima la la testa poi le spalle e quindi i fianchi. Il rito consiste nello sdraiarsi per terra, strisciare sul nudo pavimento da cui emerge la pietra, infilare prima le braccia, poi disimpegnare la testa dal canale, appiattirsi ancor più e ruotare per far uscire le spalle ed infine disincastrare il bacino. I piedi seguono senza sforzo.
Tutto questo è facile per i bambini, gli adolescenti longilinei e via via più difficile per le corporature più robuste. Io confesso di averci provato ben due volte e di aver fatto passare agevolmente testa e spalle ma di essere rimasta irrimediabilmente incastrata con le ossa del bacino malgrado i consigli e le spinte degli altri “devoti”. Ne ho ricavato due ampi ematomi sul fianco sinistro nel punto in cui ho combattuto testardamente contro la roccia ( pur levigata da milioni di passaggi) che presenta ancora delle sporgenze interne per me insuperabili.
Quale il significato plurimillenario di questo rito? Perché, dalla civiltà megalitica ad oggi, questo evidente rito propiziatorio è sopravvissuto all’usura del tempo, alle sopravvenute divinità classiche, all’ostilità del cristianesimo che è riuscito solo a verniciare il culto ( fisicamente) con la sovrapposizione di un’immagine di S.Vito ( che sta ora scomparendo)?
Perché, come i topi hanno i denti per aggredire il mondo e gli uccelli le ali per volarci sopra così gli uomini come loro armi specifiche hanno la ragione e il sentire ( non è la sede per definire meglio questi due termini) con cui cercare di capire la natura ed ingegnarsi per propiziarsela.
Ancor oggi, nel nostro linguaggio, estroflessione del nostro pensiero, usiamo similitudini e metafore che indicano, con salti logici ad libitum, nostre elaborazioni mentali che collegano immagini ed eventi per un quid che ce li affratella. Dunque pietra forata come canale del parto che fa scaturire alla vita una nuova creatura: allora come oggi questo è immediatamente evidente per le nostre strutture mentali.
I nostri progenitori avranno, con riti per noi inconoscibili cercato, (forse proprio nella pienezza della Luna di primavera che risveglia e rende feconda la terra) di propiziarsi la natura invocandone la fertilità in tutte le sue forme. Questa richiesta, anche se scherzosa, era ancora presente, nel giorno di Pasquetta, nella piccola chiesa di S.Vito.
Il mio atto cultuale, fortemente voluto anche se non completato, era invece volto ad un’altra possibile interpretazione: non tanto alla fecondità futura ( in questo campo ho già abbondantemente dato) quanto ad un culto delle antenate: un attimo di ricordo, di riflessione e di devoto omaggio a tutte le donne di cui sono figlia, a quella mai interrotta catena di madri da cui scaturisco , che hanno affrontato, dall’origine dei tempi, l’avventura del dare alla luce che ben conosco. Ultima, prima di me, mia madre, che con settantadue ore di doglie mi ha partorito. A lei ho pensato e dedicato i miei lividi, Direbbe che ho fatto ,come al solito, una stupidaggine ed avrebbe indubitabilmente ragione , però…


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