Menu di navigazione+

La Caremma o Quarémma

Pubblicato il 23/Mar/2013 in Salento magico

Un incontro improvviso e sbalordente può capitare all’ignaro turista che abbia deciso, in questi giorni di Quaresima, di visitare il Salento per godersi il sole già caldo, le giornate già lunghe e il profumo di primavera e di mare che aleggiano ovunque. A me è capitato per la prima volta lo scorso anno. Stavamo passeggiando tranquillamente nel centro storico di Gallipoli, quando ci si è parata davanti, all’altezza del secondo piano delle case, nel centro della strada, una figura impressionante: c’è voluto un attimo per capire che non era una donna impiccata.

È La Caremma, o Quarémma, a seconda dei paesi! Un grande pupazzo di proporzioni umane, vestito di nero in segno di lutto, con il viso da vecchia e in una mano un’arancia amara con conficcate sette piume ( tradizionalmente di gallina nera) ad indicare le settimane di Quaresima e nell’altra il fuso e il filo. Moderna Moira ( sintesi di Cloto che fila e Lachesi, il destino, che avvolge sul fuso lo stame della vita lungo o corto che sia) emerge dalle pieghe di una storia plurimillenaria. La si dice moglie del Carnevale, simbolo di penitenza dopo i bagordi carnascialeschi.  Ben di più essa rappresentava, in Salento ed altrove. La disponibilità e la competenza di Franco Sperti della biblioteca di Tuglie (www.bibliotecamica@comune.tuglie.le.it) mi ha procurato un bel saggio di antropologia culturale: Giulietta Livraghi Verdesca Zain: Tre santi e una campagna: culti magico-religiosi nel Salento di fine Ottocento, Laterza ed. Bari 1994. È descritta con pietas, cultura ed intensa intelligenza la civiltà contadina  del Salento tra  fine Ottocento e inizio Novecento prima che due guerre mondiali, una devastante emigrazione, la riforma agraria, portassero ad un radicale mutamento di vita. Quegli uomini e quelle donne avevano elaborato nel corso delle generazioni una propria forma di interpretazione del mondo in una prospettiva magico-panteistico-panica con residui di religione classica e ampie velature cristiane. Piccolo fragile scudo per affrontare con un organico e completo sistema di credenze la paura, la miseria, le feste, le piccole gioie collettive, la condizione subalterna senza possibilità di riscatto. Il tutto con una fede autentica e una “religio” che teneva unita tutta la comunità. Le note qui di seguito sulla Caremma quindi, non sono farina del mio sacco, ma un piccolo sunto delle pagine 249-262 del libro citato. Rimando chi volesse avere una visione più completa e godere della bella prosa dell’autrice, al libro stesso, prezioso anche per molti altri aspetti  della civiltà contadina del Salento.

A mattutino, due ore prima dell’alba, il mercoledì delle ceneri, le campane suonavano a morto. Le donne si alzavano dai loro sacconi di paglia d’orzo (che non avrebbero più sprimacciato fino al mezzogiorno del sabato santo per aggiungere al digiuno e all’astinenza da carni, latticini e uova , la penitenza di un riposo notturno disagevole) e che fossero o no in lutto, si ammantavano di nero. Silenziose, si avviavano alla chiesa, per ricevere la cinniréddhra santa (cenere benedetta) e incontrandosi sul sagrato , appoggiandosi reciprocamente le mani sugli omeri: ” Cénnire ti Ddiu ti àscia a pizzùlu pi llu paraìsu” (Cenere di Dio ti sia gradino per l’entrata in paradiso) a cui si rispondeva, con le parole e con il cuore : “Palòra tua jò la fazzu mia, e tti ògghia Ddiu, òccula e ppuricìni, sobbra’a lluscalòne ti Santu Pietru” (le tue parole io le faccio mie, e ti voglia Dio, chioccia e pulcini (tu e i tuoi) sulla soglia custodita da S. Pietro). Ricevute le Ceneri, tenevano il capo eretto e si muovevano a piccoli passi perché quel tesoro potesse giungere intatto fino alla loro casa. Una volta giunte, con solenne gestualità ellenica, al flebile lume della lucerna, si toglievano lo scialle, ne raccoglievano le cocche e lo alzavano oltre il capo, per indicare il patto con il Cielo. Nell’esiguo spazio della loro casa, a passi misurati si portavano al tavolo-madia, dove, con un colpo secco, ribaltavano lo scialle e lo scuotevano a lungo, con lo stesso movimento con cui setacciavano la farina, affinché la cenere benedetta fosse patrimonio di tutti i membri della famiglia che a quel tavolo ogni sera si sarebbero seduti.

I capi famiglia avevano intanto, nottetempo, issato sui comignoli, ognuno la propria Caremma. Nessuno poteva esimersi dal partecipare al simbolico coro di contrizione. Nel giro di una notte, come per magia, i tetti- terrazze e i comignoli si animavano di questo lugubre corteo.Nella costruzione delle Caremme si seguivano moduli standardizzati perché il simulacro della colpa non eccedesse nel troppo o nel troppo poco procurando a quella casa la taccia di “mmùccia tigna” (nascondi pecche) o quella di “ntronacàscia” (rintrona cassa) per aver farisaicamente calcato nello scrupolo dell’accusa.  Poveri cerimoniali, ricchi di significati, venivano eseguiti in ogni domenica di Quaresima. Al primo tocco della campana di mezzogiorno gli abitanti di ogni strada, o corte o vicolo si affrettavano nel punto più largo formando un largo cerchio, per definire un perimetro sacrale. Solo allora, il membro più anziano della piccola comunità faceva il suo scenografico ingresso, sbucando dal punto più lontano.Le donne allora nascondevano le mani sotto il grembiule, in segno di compunzione e gli uomini, deposte le coppole a terra, gli si facevano intorno per scortarlo fino al centro del cerchio. L’officiante a quel punto invitava i presenti a farsi il segno della croce e ringraziare il Padreterno per il tempo avuto per saldare il debito e scansare il fuoco dell’inferno. Un suo triplice schioccare di dita dava il via ai ragazzi prescelti per la “spennata”. Fino a quel momento erano rimasti in attesa ognuno sulla soglia della propria casa. Partivano allora a razzo arrampicandosi velocissimi sulle lunghe scale a pioli precedentemente disposte in corrispondenza di ogni Caremma. Dopo aver raggiunto il culmine dei comignoli e sostato un attimo “pi ddare tiémpu a llu celu cu lli éscia” (per far sì che il Cielo avesse il tempo di notarli) sfilavano una delle penne confitte nell’arancia amara, staccandone anche il filo di lana che la teneva legata al fuso e lasciandolo a penzolare nel vuoto. I penitenti intanto, guidati dal Vecchio, si battevano il petto e cantilenavano: “È passata un’altra settimana e più vicina lampeggia la croce: Cristo perdona i nostri peccati! Te lo chiediamo con la faccia a terra; Cristo perdona i nostri peccati!” I ragazzi adesso dovevano affrontare la discesa. Sapevano che il loro compito era importantissimo: “Pensate alla penna, mi raccomando, avevano intimato madri e nonne, ricordatevi che si è sempre detto:cento sventure a causa di una penna persa e morsicature della cattiva sorte per il ruzzolare di una maràngia” In effetti, nel periodo preso in considerazione, la maràngia che teneva in mano la Caremma era ormai una sola, ma con ogni probabilità precedentemente sette erano le penne e sette le marànge. Le intemperie e i venti, tipici di questa stagione, forse con il tempo, avevano consigliato di non attirarsi la cattiva sorte con ruzzoloni di marànge. Così, i ragazzi, appena toccata terra, ricevevano, ognuno dalla propria madre, una maràngia da consegnare insieme alla penna al Vecchio che le disponeva a ventaglio sopra un tufo, precedentemente sistemato dal più autorevole dei capifamiglia partecipanti al rito al centro del cerchio, affinché servisse da piccola ara. Un coro a quel punto si rivolgeva al Cielo e implorava: “Affacciati Dio, e l’olio per bruciare mandacelo con la mano di una creatura in fioritura”. Detto questo i presenti rompevano il cerchio e si disponevano in due file compatte. Comparendo dal punto più lontano della scena una donna vestita di bianco in avanzato stato di gravidanza incedeva verso l’improvvisato altare e si andava a porre alla sinistra del Vecchio. “Simente minàu ratici, e ssontu terra ca ngrossa  la spica” ( Il seme ha messo radici, e sono terra che ingrossa la spiga.) Proserpina in persona non avrebbe potuto dire meglio! E subito aggiungeva: “Io sono indegna, ma la creatura innocente che vi porto può permettersi di offrire l’olio da bruciare ai piedi di Dio”. Cavata dalla tasca del grembiule una bottiglietta di olio, la svuotava sopra le penne, tracciando segni di croce e intonando un Credo a cui tutti facevano coro ricomponendo il cerchio. Il Vecchio con un tizzone acceso dava allora fuoco alle penne.Non rimaneva che sbucciare le marànge, compito svolto dalle donne, anche se era pur sempre il Vecchio a distribuire gli spicchi, religiosamente, a uno a uno, come fossero ostie e proclamando:” Se vi inasprisce la lingua, pensate al fiele che ha dovuto bere Cristo!” Le bucce di marànge erano scrupolosamente raccolte dalle donne, a testimonianza del rito avvenuto e come esca profumata da usare nel mezzogiorno del giovedì santo, quando, finalmente finita la quarantena, le Caremme venivano rimosse dalle loro postazioni aeree e in un crescendo di selvaggia euforia buttate abbasso per essere bruciate in un unico falò, sul quale si lanciavano appunto le bucce di marànge unite a manciate di sale.

Alcune delle Caremme fotografate per questo articolo mantengono coscienza del loro antico significato, altre si sono adeguate ai tempi, diventando innuocue vecchiette che fanno la calza, annunciano la primavera, sorridono bonarie e infornano addirittura il pane.